Umberto Rovelli
Oltre la nudità del pasto
In: Vincenzo Missanelli – Opere con un’antologia critica
Bandecchi & Vivaldi, 2015
Se – come taluni sostengono – la «via italiana» al progetto industriale s’è particolarmente contraddistinta nel rivolgersi a fasce di mercato alte e – conseguentemente – ristrette, d’altra parte esistono – sebbene spesso trascurati della stampa di settore – creatori di consolidata esperienza che hanno costantemente eluso gli escamotage delle serie limitate, le dorate solitudini dell’alta gamma e il prestigioso esilio del lusso, vivendo responsabilmente l’imperativo comune implicito nella grande serie: il prezzo accessibile della qualità.
Vincenzo Missanelli appartiene sicuramente a tale novero di progettisti innovativi e competenti che, pur approdati al design in un periodo estremamente generoso, non hanno mai dimenticato il significato originario di una «professione» un tempo contesa ed in bilico fra suggestioni d’arte e artigianato e oggi compressa da non lungimiranti strategie di marketing attente a evidenziare più l’epidermica ostensione dei prodotti che approfondirne i nessi con pratiche fruitive e innervature costruttive.
Non è, credo, mero rilievo filologico segnalare che, al di là d’essere una «attività intellettuale o manuale esercitata in modo continuativo e a scopo di guadagno», la «professione» ammette come primo significato l’«appartenenza». E tale senso è implicito anche nell’ormai desueto termine «mestiere» che allude a uno specifico ruolo gregario o ancillare del minister, in particolare nei confronti del magister.
Del resto, nell’inquadrare l’opera di coloro che progettano e producono artefatti in un rapporto di dipendenza e di deriva» comunitaria o ambientale, si condensa quasi tutto il pensiero greco classico che, tra l’altro, nel concetto di hybris rinviene un calamitoso orizzonte posto innanzi a quanto si reputa proprio e commisurato per l’agire umano.
Il mito di Prometeo – leggendario archetipo del «pro-gettista» nonché colui che, donandoci il fuoco, è a fondamento del processo inventivo, produttivo e intellettuale dell’umanità – racconta di un atto «arrogante» nei confronti dello status quo, un gesto «eversore» che mina le relazioni di forza stabilite tra i vari luoghi in cui è suddiviso gerarchicamente l’universo cultuale greco. E come tale sanzionato dagli dei. Di quella spoliazione – e del conseguente sbilanciamento di forze attive in relazione all’ambiente – godiamo oggi i molti vantaggi tralasciando, però, di soffermarci sulla caduta di segreto che la nostra tecnologica iper-attività comporta.
Ogni giorno, siamo sedotti da magiche capacità di nuove protesi, eppure sottovalutiamo quasi del tutto il senso di «provocazione» che la spregiudicatezza della tecnica reca nel proprio seno. Sottovalutiamo cioè come e quanto il suo potenziale implicito di de-radicamento sia pericoloso per la psiche umana e, di conseguenza, per la tenuta delle comunità.
La stessa storia dell’arte degli ultimi sei secoli è in parte compendiabile come un percorso di ricerca e «liberazione» ordito da eccellenti «ribelli» nei confronti dei «limiti» – tecnici, culturali, espressivi, ecc. – costituivi della società in cui l’artista ha vissuto o vive. Nei riguardi dell’indistinguibilità del ruolo fortemente «corporativo», gregario o ancillare giocato sia dall’artista sia dall’artigiano in epoca medievale rispetto alla società di appartenenza, il Rinascimento costituisce una sorta di cesura. Da allora in poi un tratto saliente dell’artista sarà la sua tensione a discernere – o almeno a porsene il problema – il sé autorale rispetto al canone condiviso. Quest’ultimo, di volta in volta, verrà da questi interpretato come ingiustificato, superfluo, inutilmente oppressivo, limitante, limitato, ecc. Rispetto alla «scuola» di riferimento e/o al «metodo» ivi adottato, sempre più artisti avrebbero così ri-concepito e narrato il proprio iter intellettuale, tecnico e pratico come pionieri «innovatori» e «rivoluzionari» piuttosto che «restauratori» o «riformatori».
Fra inventio e società, il terreno della conciliazione si è via via rarefatto a beneficio di un ben più acceso polemos tanto competitivo quanto sterile, sempre meno, cioè, incline alla retorica della «ricucitura», alla dialettica paziente fra committenza e artista, a fronte, purtroppo, della progressiva dissoluzione di un qualsiasi corpo sociale ed economico di riferimento. Con la caduta della borghesia e la parodia comunicativa dei «salotti buoni» – susseguita, peraltro, alla loro definitiva perdita di reale capacità d’indirizzo nell’attuale fase globalizzata – l’artefice si è come rappreso su sé stesso, sui propri nervi ormai «scoperti» ad ogni fondamenta sociale. Idolo isolato, benché irretito da una pur minima massa critica di co-interessati, l’artista – ed il limitrofo designer – è oggi più che mai un coacervo pulviscolare che non lascia traccia, una fluidità di eventi senza un reale pubblico, una virante pellicola sociologica che non si riconosce ormai né come araldo né come professionista né, tantomeno, come uomo di talento.
Non stupisce pertanto che in un siffatto contesto pernicioso anche le migliori voci dell’arte – e del design – non tentino di armonizzarsi, associarsi, coinvolgersi, ma solo di sovrapporsi, elidersi e non già di comporsi. In questo senso la quantità, la superficie e i volumi prodotti, hanno acquisito una rilevanza strategica di primo piano. Ma se il nostro sia o meno il secolo di un molesto revival del Kitsch o dell’Art pompier non importa poi molto. Più d’ogni altra considerazione vale il rammarico che oggi si sia smarrita la figura del retore, del cerimoniere dedito a una ritualità dialogica e plurale, versato nella duttile grammatica dell’ascolto, del più che tollerante attivarsi verso l’altro sconosciuto, del disporsi reverente alla pietas, dell’aderire con sobrio orgoglio alle ragioni del «noi», alle ragioni dell’essere «insieme» qualcosa di più e di meglio della nostra, ipervalutata, identità.
È d’altra parte ben noto il potere e l’autorevolezza del traditum nell’opporsi fieramente all’emergente, alla singolarità divergente, al diverso. Una reale radice di superbia «istituzionale» risiede anche nella fissità assolutistica – sovente instaurata e promossa da stolidi funzionari – che una comunità può attribuire agli strumenti, ai rituali e ai valori che ha acquisito e deciso di sostenere nel corso della propria storia.
Ma i pericoli della sopravvalutazione del passato, di quanto già stabilito, scritto e ribadito, rispetto alle vicissitudini, le occasioni e le opportunità (il καιρός) dell’odierno, risiedono in larga parte proprio nella mancata partecipazione degli individui – anche i migliori – alla vita comune. Infatti non si ha traditum pubblico e condiviso senza l’ausilio costante di azioni indivuali particolari, nessuna legge cammina solitaria e può prescindere dal flatus vocis della lettura interpretativa del καιρός, né alcun canone formale può astrarsi dalle cure né dalla vitale esecuzione del gesto che pur ne segue intenzionalmente i dettami. Come sostiene autorevolmente George Steiner le stesse «grammatiche vivono nella ribellione» , sono cioè grammatiche in azione di cui i nostri migliori «maestri di comprensione sono gli esecutori».
Nel gioco infantile del «telefono senza fili» tutto ciò si evidenzia in modo particolare. La stessa parola detta e udita passa da bocca a orecchio, e nel far ciò si altera e diviene. In questa straordinaria, sorprendente capacità che una stessa parola, l’esito di una stessa azione, ha di «divenire altro» rispetto a quanto sancito nei protocolli in uso, alberga un lacerto di divino. In questo offrirsi al mondo della parola e della cosa replicata cova il cambiamento, la trasfigurazione. E questo accade perché in ogni parola e in ogni artefatto vi è un eccesso, mai pienamente espresso, mai pienamente detto o fatto.
Come ben sapevano i latini ogni ri-petizione è una domanda di senso a tale eccedere, ogni questione o curiosa interrogazione in questo campo è copiosa. Nessuna copia riflette aridamente l’archetipo, ma riconfigurando l’exemplum, al contempo, lo diverte. In tale puntuale divergere nell’esito di uno stesso rituale, di una medesima pratica protocollare, risiede il vitale connubio di permanenza ed evoluzione che connota le forme in atto presso una comunità, le sue grammatiche in azione.
Non diversamente ciò accade per i segreti del mestiere. L’apprendista, divenuto finalmente artigiano professionista, intuisce ed avverte nella propria laboriosità intelligente un senso di pienezza che discende direttamente dalla complessità dell’insegnamento ricevuto, dalla qualità dell’analisi che gli è ormai propria e che gli consente di credere, vedere e, talvolta, replicare vitalmente proprio a quell’eccedere nascosto dentro l’ovvio. Quando ne è capace, egli, a tutti gli effetti, è autore del proprio prodotto ma tale distinzione – ovvero l’autoralità – non viene di consueto intesa come differenza produttiva bensì come diversa abilità, eccellenza aperta al quel nuovo che in un intreccio laborioso da dipanare è avviluppato al già noto. Ed è proprio del diverso il “volgere altrove” rispetto i canoni consolidati – anche al limite della bizzarria. Il diverso ed il divergere pare quindi suggerire non soltanto ad un esubero, tutto da sperimentare, ma anche ad un’allusa segreta moltitudine intrisa ed instillata entro l’unicum, un avvenente plus cui dare voce, mentre nel differente quel che si evidenzia è piuttosto l’identità mancata, la minima varianza dal modello che non determina alcun scarto vitale, piuttosto un minus in essere che ribadisce il già dato goffamente.
Nel realizzare diversamente la medesima cosa, la capacità di distinguersi dagli altri colleghi artigiani non va intesa come aggiunta o ampliamento rispetto all’esistente bensì come miglioria, sublimazione e approfondimento di quanto già presente. Tra l’altro la perizia e il perfezionamento della tecnica artigiana spesso si palesano in una riduzione quantitativa dei materiali impiegati perché si tende, con l’abilità umana, ad un miglior utilizzo delle risorse. L’artigiano evoluto che vede riconosciute in modo condiviso le proprie competenze è dunque un operatore tecnico che solitamente non fa cose differenti, ma più propriamente fa al meglio le stesse cose. E nel fare ciò molto probabilmente s’avvicina a divino: approssimando pertanto al divino anche chi fa uso dei suoi prodotti.
Sarebbe errato – e probabilmente molto di quel che si dice sull’argomento sarebbe inconsistente – sottovalutare questo nesso. La creatività è un dono molto particolare, forse quello che più ci approssima al superno, l’ultraterreno. Un dono nel quale possiamo intendere tanto la precisa e più perfetta esecuzione di un compito quanto il compiersi della blasfemia, della rottura di una relazione fra uomo e divinità.
Anche chi non sia credente è perfettamente in grado di concepire l’ente causante un tale debito. Ma che sia Utopia, Arte, Poesia, Bellezza, Natura, Specie, Società, Famiglia, non sta nell’identificarne i tratti la questione. È piuttosto essenziale acquisire e credere che nell’uomo alberghi se non la scintilla divina, almeno un quid di ulteriore al proprio ben circoscritto percorso esistenziale – sul quale, a ben vedere, poggia la stessa possibilità di ogni narrazione e di ogni senso.
Tale ulteriore è essenzialmente occulto e segreto e come tale dovrebbe essere inteso perché è nella sua inattingibilità che affondano le radici più proprie dell’inesauribilità del senso. La copiosa diversità degli esiti delle pratiche umane si deve innanzitutto all’inattingibilità di un unico senso ulteriore di ogni pratica umana. Senza questo teorema antropologico non sapremmo spiegare quasi nulla degli uomini, dei loro comportamenti più estremi e giornalmente comprovati. Non sapremmo spiegare come possano esistere oggi persone disposte al suicidio|omicidio per la sempre più pressante penetrazione di costumi, consumi e pratiche non reputati consoni al proprio traditum, né riusciremmo a spiegare la medesima disposizione al sacrificio che spinge molti più uomini e donne a salire su esili e stipate imbarcazioni per affrontare viaggi di migliaia di miglia marine.
Non è vero che in ogni caso si è disposti a tutto perché privi di speranza. Quando si è senza speranza si è disposti solo alla morte, al fascino potente della sua conclusività. Ma se la disperazione si attiva sovente in un cupio dissolvi originato da un malato rapporto col passato, il sacrificio di sé per una possibilità di futuro è tutt’altro: è porre il destino ulteriore delle future generazioni davanti al proprio destino, immaginare di farne lo sfondo della recita di chi verrà. Non disperazione dunque ma speranza quando non addirittura fede nel futuro.
Di più. In quel sacrificio di sé per una possibilità di futuro che magari non ci riguarda personalmente in modo immediatamente percepibile c’è una tonalità caratteristica che apparenta quel minus a quanto si rileva nella stessa pratica del progetto ai suoi inizi: la rinuncia agli infiniti possibili divenire, la selezione, fra la molteplicità delle opzioni, delle più consone e plausibili.
La riconquista piena del senso custodito nei valori del traditum potrà forse destare perplessità in chi abbia meno di 40-50 anni. Ma è in questa fase che chiunque comincia a riscoprire in sé i tratti anche fisici di comunioni e appartenenze fino ad allora inavvertite. Nella parabola che segue la maturità accresce percettibilmente il peso della filiera familiare, sociale, talvolta quella di specie. Sia nei tratti somatici, nei dolori, nei difetti – qualità che fino a ieri attribuivamo ai nostri genitori e che ora ci riguardano – sia nei tratti «comuni» ad un luogo, un gruppo, che impariamo a riconoscere, appunto, come tali e non già come meramente personali. In questo rilievo, in questa sorta di pressione ambientale che la psiche avverte con l’età è come se, con astuti espedienti, al profilarsi non più così indefinito dell’orizzonte del nostro tragitto esistenziale, la vita avesse predisposto il nostro sguardo e il nostro orecchio ad avvertire un monito altrettanto lapidario: «Non sei il solo».
Nonostante ciò, in un ambito sociale allargato l’idea stessa di un tavolo comune attorno al quale cercare di comporre e mediare le opposte urgenze espresse da un contesto di convivenza in cui «espiare ed esorcizzare», anziché semplicemente «reprimere», gli impulsi «più distruttivi, nichilistici e malvagi della nostra natura» pare essere del tutto periferica – quando non addirittura derisa – da un’umanità parcellizzata che, sia economicamente sia psicologicamente, ha ormai «sciolto» ogni senso di responsabilità e reciprocità nei confronti della comunità di origine.
Rebus sic stantibus – o almeno accettando anche in parte gli assunti testé espressi –nell’altare di Gragnana progettato da Vincenzo Missanelli la questione della relazione di co-appartenenza tra artefice e società – fulcro esistenziale e progettuale dell’opera – trova una «scandalosa» risposta controcorrente.
A partire dalla materia stessa da cui è stato ricavato l’artefatto che proprio della conciliazione e del «pasto in comune» è emblema.
Difficile pensare qualcosa di più pertinente e connesso con il territorio del marmo Bianco di Carrara, un unico blocco di 40 tonnellate da cui tutta l’opera è emersa poco a poco. Il desco imponente – si badi, una benevola imponenza – ideato da Missanelli si origina quasi inevitabilmente da uno scavo nel «frutto» ambientale più consistente, conteso e prezioso reperibile nel luogo di coesistenza della collettività: le Apuane, così ambiguamente contese fra moniti volti a estenderne l’intangibilità e perpetrati scavi – al limite del cannibalismo ambientale – per consentire al mondo, e ad artisti internazionali, il privilegio d’interagire con uno straordinario supporto materico che per qualità e purezza non ha eguali.
In questo «sacrificio» del paesaggio – sorta di campione offerto ed esposto alla comunità cultuale – la stessa materia sottratta alle leggi del «mercato» già transita e si trasmuta da «bene privato» in «condivisa risorsa», divenendo cioè medium ecumenico disposto e disponibile alla comunità.
In primo luogo, dunque, l’atto del dono – gratuità di supporto, di progetto ed esecuzione – rafforza il senso e i connotati di «appartenenza» attribuibili all’opera stabilendo fin dall’inizio una legge ampiamente disattesa nel mondo reale: quanto è stato estratto dal luogo recherà memoria concreta nel luogo: non sarà cioè atto di spoliazione bensì di testimonianza. Quanto estratto recherà infatti una traccia indelebile e duratura, avendo così occasione di transitare in: a) un ponte materico/spirituale fra terra e cielo; b) un laboratorio aggregativo, di confronto e riconoscenza fra simili; c) un luogo di spartizione del pasto simbolico delle anime, riunite qui a meditare sulla comune condizione impermanente e transeunte, ma non per questo effimera o vacuamente inutile.
Attorno all’altare la comunità avrà modo di stringersi come ad una mensa originaria –che si allarga in abbraccio e si connota in simbolica «dimora nella dimora» – prendendo atto dei vincoli sussistenti fra tenuta societaria ed operosità locale ma, al contempo, ponendo mente all’azzardo connaturato alla vicenda terrena, ai pericoli che quotidianamente ogni individuo affronta lavorando sul territorio che l’ha generato – nelle cave, nelle segherie, nei laboratori – rischiando talvolta di soccombere.
Ciclicità della vita, ineluttabilità della morte serbano intatte le loro necessità, ma nell’altare – come, del resto, nella nemesi del fuoco prometeico, il vaso di Pandora – è custodita una speranza. Evocata nella solida nudità del marmo, il dur désir de durer della pietra nell’opera di Missanelli si «apre» a una dialettica ulteriore rispetto al più vieto quotidiano delle vicende individuali, all’umana corruzione, all’inesorabile declino, alle rinunce necessarie che costellano la pratica esistenza di ognuno.
L’altare di Gragnana si dispone pertanto al dialogo con l’altro: il gratuito sconosciuto, l’intatto e l’impensato sul quale letteralmente sfonda ogni nostro credo, ogni nostra sapienza, quel quid ancora non visibile, quel cuore sacro che sta oltre ed infra il corpo materiale delle forme. Quasi per contrappasso la dura pietra s’intenerisce e si fende alla grazia che esubera ogni «egoismo» e coralmente «abita» e dà luogo ad ogni ente, ogni reale percepire: mai accessibile pienamente, in lei cova e risiede ogni umana potenzialità lirica e poetico-espressiva.
A tale grazia – che, attendendo, ci precede – allude la centralità della croce posta alla base delle doppie volute chiuse a nastro a formare il perimetro dell’altare, inquadrando il simbolo della profetica rinascita nei profilati morbidi di una teca litica, uno scrigno esibito in trasparente luce.
Una tornita levità monumentale soccorre e solleva l’impatto complessivo dell’altare eburneo rendendo fluida e dinamica la più tetragona saldezza del marmo che – nella sua definitiva collocazione – pare semmai disposto a farsi varco, portale d’accesso per un oltre inesplorato sul quale quasi s’intuisce l’essersi già dischiusa la fenditura-imago della soglia.
Il segreto del tepore teneramente seducente che si respira nell’artefatto ideato da Missanelli risiede anche nella millimetrica qualità distillata nel disegno delle curve sinuose di un progetto che – paradossalmente – è sia sobrio che sensuale. Un esito chimerico che scaturisce da una pluridecennale confidenza con la materia e ha consentito all’autore di esaltare al meglio il ruolo degli esecutori.
Per molti anni, sia in campo artistico che nella professione, un’umiltà davvero inconsueta ha convintamente determinato Vincenzo Missanelli a non elaborare alcunché progettualmente fino quando non gli fosse stato chiaro il più minuto aspetto dei procedimenti e delle prassi coinvolte nella realizzazione delle proprie opere. Tale regola d’appoccio al progetto, unita a non comuni doti di accuratezza, operosità e curiosità ha reso l’artista|designer un esperto conoscitore di molti materiali propri della tradizione artistica e industriale.
Legno, metallo, vetro e marmo sono stati indagati, provati e saggiati per anni da Missanelli, ed è per tale studiata e continuativa confidenza che essi sono esattamente colti nelle loro più latenti potenzialità. Gli esiti progettuali che ne risultano esprimono una «verità» che solo la conoscenza profonda e applicata sono in grado di far emergere dalla nudità delle materie. Verità che, sovente, si riverbera in un silenzio cromatico assoluto, in accordo con una spiccata predilezione, dimostrata in più occasioni da Missanelli, per la logica e coesa essenzialità formale degli artefatti.
Come accade peraltro nell’altare di Gragnana, dove lo stesso nitore e pulizia del segno scultoreo complessivo paiono quasi un monito, un invito a scartare le contraffatte ambasce dalla routine (accantonando il superfluo, l’eccedente ordinario, i valori «che prevalgono al di fuori, nel mondo degli uffici, delle palestre e dei salotti») per pervenire al riconoscimento e all’emersione dei tratti di quanto è veramente sostanza.
Non per caso il blocco madre da cui s’è avviato il progetto è poi approdato nella chiesa di San Michele Arcangelo come rarefatto, praticamente dimezzato in densità: se il lavorìo profondo della materia ha avuto luogo, ciò è accaduto affinché la croce – chimerico simbolo in cui sacrificio e speranza di salvezza sono saldati insieme – emergesse. Affinché emergesse, cioè, il memento più plasticamente idoneo a consolare quelle altre dolorose perdite che i luoghi hanno subìto realmente in questi anni. Non già, dunque, e non solo per «rappresentare» quanti hanno «sacrificato la loro vita (…) contribuendo con il loro lavoro a diffondere la conoscenza del marmo nel mondo», ma per offrire spazio al carico luttuoso degli orfani e delle vedove. Un vuoto materiale che si fa carico del peso psichico ed esistenziale provato dalla comunità e da chi, in essa, è stato più colpito negli affetti.
Anche per questa via – e a maggior ragione – l’altare può divenire simbolo vitale dedicato all’ingestione sacramentale. In opposizione al più prosaico ciclico consumo che annienta l’uomo nell’incessante bisogno di superficie, spazio, quantità, sull’altare di Gragnana, accessibile a chiunque, viene offerta altissima qualità spirituale.
In perfetta sintonia con quanto realizzato per la grande serie, il pezzo unico creato da Vincenzo Missanelli rafforza ogni senso coesivo attribuibile ai suoi lavori pregressi, serrando in un appassionato fil rouge lavorativo, umano e professionale questo capolavoro d’immaginazione artistico-sociale ed artigianato industriale.
Nell’opera sono infatti con-fuse qualità di progetto, di fattura e fervente speranza di vita in comune. E fors’anche l’auspicio per l’inveramento e il consolidarsi di una comunione «creaturale» che cessando di concentrarsi sulle differenze tra gli appartenenti alla comunità riesca piuttosto a intravederne le affinità, cogliendo appieno le ragioni dell’ineludibile necessità di percorrere insieme il tratto di strada che grazia o καιρός hanno dischiuso a ognuno di noi. Entrambi essenziali nel generare senso, nell’ammetterlo, sperarlo, percepirlo come tale prima ancora ch’esso si manifesti, entrambi coinvolti in un progetto non semplicemente disinteressato bensì interessato ad accogliere, donare, conoscere e compatire.
Vincenzo Missanelli con l’altare di Gragnana ha saputo saldare simbolico ingerire e concreto levare in un artefatto tecnologicamente risolto e programmaticamente rivolto a elevare alta la voce delle ragioni – mai abbastanza rivendicate – di un sempre più complesso e delicato, nei suoi equilibri manutentivi, «stare insieme».
Come ogni atto di vera creazione, tale monumentale testimonianza è ora patrimonio comune, opera vivente esposta al responso del mondo. Il suo destino è ormai nelle mani di chi ne avrà l’onere dell’uso e della cura.
Non c’è madre che non intenda come i figli che ha generato appartengano al mondo piuttosto che a colei che li ha partoriti e cresciuti. Il destino di ognuno di noi s’incarna nel donarsi al mondo, alla comunità, esserne parte viva, attiva, non rescissa enclave.
Così, se l’opera di Missanelli sarà realmente vaso di speranza, desco benevolo, teca amorosa, riparo psichico comunitario, vivida testimonianza comune, scrigno copioso e trasparente, soglia sentita, portale ecumenico, ponte sicuro, varco sapiente, fenditura attiva, ecc., ciò dipenderà quasi esclusivamente dal vigore persuasivo del «racconto» comunitario che intorno a esso i fedeli e la comunità nel suo complesso sapranno tramandarsi da bocca a orecchio, di voce in voce.
Come detto, in tale offrirsi alla replica cova un cambiamento, una perenne trasfigurazione che può anche significare – all’estremo limite – la più totale eclissi d’ogni senso. Ma questo è il rischio e l’azzardo che necessariamente dobbiamo correre perché, comunque, è in tale vacuum originario, è in tale costante coazione diversiva che ha luogo il vitale connubio di permanenza ed evoluzione che connota e distingue la vita reale delle forme in atto presso una comunità.
Anche perciò l’auspicio che rivolgo a chiunque giunga al cospetto dell’altare di Gragnana è quello – sommesso – di provare a chiedersi cos’abbia potuto spingere un popolo a tutto ciò. Ad estrarre cioè, a nome di tutti e a disposizione di ognuno, una porzione così vasta di materia dalle viscere della montagna, progettarne il disegno, farne un’opera definita, quindi laboriosamente trasportarla in questo luogo consacrato e – dopo un coinvolgente rito pubblico in cui essa è divenuta tumulus nonché forziere custodiente i resti d’uomini pii ed eccellenti –, eleggerla a tramite di partecipazione e confronto rivolto a tutta l’umanità. L’auspicio è cioè quello di provare chiedersi quanto immane sia la forza che sta dietro questo desiderio di sublimazione, quanto potente sia l’energia serbata nei cuori, nelle mani e nelle menti che hanno preteso di erigere per tutti noi questo simbolo di speranza e di comune impegno all’ascolto e al sostegno reciproco.
E questo perché è proprio a coloro che con costanza e impegno si cimenteranno su tale enigma che l’antro segreto, la cavea sibillarum in cui dimora il senso, tenderà, più plausibilmente, a dissigillarsi.